Afghanistan: 18 anni di menzogne, da Bush a Trump

di Francesco Caputi

Dopo tre anni di battaglie legali, il Washington Post è riuscito ad ottenere e a pubblicare duemila pagine di documenti top-secret inerenti la guerra in Afghanistan.

18 anni di menzogne e dati incerti o addirittura manipolati. E’ quanto emerge dalla pubblicazione, ad opera del Washington Post, degli “Afghan Papers”, duemila pagine di documenti rimasti fino ad oggi top-secret, contenenti appunti e interviste a diplomatici e militari americani sulla guerra in Afghanistan.

Contrariamente alle dichiarazioni ufficiali degli Stati Uniti dal 2001 ad oggi, che parlavano di progressi in campo politico e militare in Afghanistan e di un’imminente sconfitta dei talebani, gli “Afghan Papers” rivelano ben altro: una guerra senza alcuna vittoria possibile, dalle spese enormi e condotta in modo confuso e incerto.

Il conflitto, iniziato con l’invasione dell’Afghanistan all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, aveva un obiettivo chiaro: distruggere Al-Qaeda e, allo stesso tempo, abbattere il regime dei talebani. Tuttavia, come riferisce il Washington Post, gli Stati Uniti commisero l’errore di abbandonare l’obiettivo principale (la distruzione di Al-Qaeda) e di impantanarsi in un conflitto che poco aveva a che fare con l’11 settembre in un paese dalla situazione politica e sociale estremamente complessa. Una complessità che gli Stati Uniti non compresero, dando origine a una guerra condotta alla cieca e senza una strategia precisa.

Con estrema e insolita schiettezza, nelle interviste contenute negli “Afghan Papers”, diplomatici e militari americani mostrano la loro sfiducia nella possibilità di risoluzione del conflitto e mettono in evidenza gli errori delle strategie messe in atto da Bush e, in seguito, da Obama.

Sotto la presidenza Bush, dopo alcune vittorie in Afghanistan, gli Stati Uniti intrapresero un altro conflitto: quello in Iraq, che in seguito portò alla caduta del regime di Saddam Hussein. Bush mise così l’Afghanistan in secondo piano, causando tuttavia un ritorno dei talebani, i quali stavano per essere definitivamente sconfitti, seppur con molte difficoltà. James Dobbins, diplomatico che servì sia sotto Bush che Obama, definì l’invasione dell’Iraq un atto di tracotanza, un errore che ad una situazione già complessa (il tentativo di “pacificare” l’Afghanistan) ne aggiunse un’altra (le operazioni di stabilizzazione e “pacificazione” dell’Iraq all’indomani della caduta di Saddam Hussein e il contrasto ad organizzazioni terroristiche operanti sul territorio iracheno). Queste le parole di Dobbins secondo gli “Afghan Papers”:

“Prima di tutto, bisogna invadere un paese alla volta. E intendo dire sul serio […] sovraccaricheremo il sistema se faremo più di una di queste cose in una volta sola.”

Dunque, verso la fine della presidenza Bush, i talebani avevano ormai riguadagnato molto terreno. L’amministrazione Obama decise di allontanarsi dalla strategia bushiana di guerra globale al terrorismo (la cosiddetta “War on Terror”) e approvò un altro tipo di strategia basato su massicce operazioni di controinsurrezione in territorio afghano, attraverso l’utilizzo di 150.000 truppe NATO e americane. Ciò che più differenzia la strategia Obama da quella Bush fu la fissazione di date limite entro le quali gli Stati Uniti avrebbero dovuto porre fine al conflitto afghano e ritirare tutte le proprie truppe. Dagli “Afghan Papers” emergono dichiarazioni di totale sfiducia verso la strategia di Obama, il quale avrebbe fissato delle date limite artificiali entro cui difficilmente le forze americane e NATO avrebbero potuto portare a termine la guerra(ai talebani sarebbe semplicemente bastato attendere il ritiro delle truppe americane), posto troppa fiducia nel governo afghano, noto per la sua estrema corruzione, e agito con troppa frettolosità in un teatro particolarmente complesso. Bob Crowley, un colonnello in pensione che ha servito in Afghanistan fra il 2013 e il 2014, si esprime in questi termini, mettendo in evidenza la presunzione degli Stati Uniti di poter “esportare la democrazia” in paesi che alla democrazia non sono abituati:

Ci sono state parecchie supposizioni sbagliate nella strategia: ‘l’Afghanistan sarebbe stato pronto per la democrazia da un giorno all’altro’, ‘la popolazione avrebbe appoggiato il governo in tempi brevi’.”

E ancora:

“Non invadiamo i paesi poveri per renderli ricchi, non invadiamo i paesi autoritari per renderli democratici. Invadiamo i paesi violenti per renderli pacifici e, chiaramente, abbiamo fallito in Afghanistan.”

Gli “Afghan Papers” hanno inoltre rivelato numeri tenuti nascosti dagli USA fino ad oggi: circa 1000 miliardi di dollari spesi per la guerra, 2.300 morti tra militari e contractor, 20.589 feriti e, questi i dati più gravi, 34.000 morti tra i civili afghani. I documenti, insomma, rivelano una guerra “impossibile da vincere”, dalle spese e dalle perdite enormi, nella quale bisogna tuttavia evitare a tutti i costi una sconfitta umiliante. L’esito del conflitto è dunque certo, ma il pubblico americano è stato ingannato, attraverso l’alterazione dei fatti e false previsioni di una futura vittoria. Sembra di rivivere il 1971, quando furono divulgati, sempre dal Washington Post (le coincidenze!), i “Pentagon Papers”, documenti che rivelarono le menzogne sulla guerra in Vietnam. Come adesso, i reali obiettivi della guerra non riguardavano una futura vittoria e la risoluzione del conflitto, ma ben altro. Scopo degli Stati Uniti all’epoca era, come dichiarato dallo stesso McDaughton, assistente del segretario alla difesa, per il 70% evitare una sconfitta umiliante, per il 20% mantenere il Vietnam del Sud libero dal dominio cinese, emergere dalla crisi senza alcuna macchia per i metodi utilizzati nel conflitto e far restare le truppe in Vietnam del Sud, anche se invitate dal governo sudvietnamita ad andar via. La dichiarazione di Rumsfeld, ex Segretario della Difesa del governo Bush, riassume nel modo più chiaro possibile il reale obiettivo degli USA in Afghanistan:

“Non riusciremo mai a venire via dall’Afghanistan se non ci preoccupiamo di trovare una strategia che offra la stabilità che ci permetterà di andarcene.”

La verità, come in ogni conflitto, è la prima a morire. Quasi un “nuovo Vietnam” , insomma. Un’analogia fatta proprio da Daniel Ellsberg, l’uomo che nel ’71 divulgò i “Pentagon Papers”:

Diciott’anni fa, io dissi, quando andammo in Afghanistan, che l’Afghanistan sarebbe stato il Vietnam.”

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