Il Teatro di San Carlo riapre al pubblico con il recital di Pretty Yende Al pianoforte Michele D’Elia

Pretty Yende, celebre soprano sudafricano, torna al Teatro di San Carlo in un recital con Michele D’Elia al pianoforte.

Ieri giovedì 6 aprile alle ore 19 laYende era sul palcoscenico del Teatro San Carlo, appena restaurato, per un programma che include brani di Wolfgang Amadeus Mozart, Gioachino Rossini, Claude Debussy, Franz Listz e Gaetano Donizetti.

Il concerto di Pretty Yendecade esattamente un mese prima della sua partecipazione alla cerimonia di incoronazione di re Carlo III che si terrà sabato 6 maggio all’Abbazia di Westminster di Londra.

La Yende dunque è tra i maggiori talenti scelti da Bukingham Palace per la cerimonia ufficiale di incoronazione, un evento epocale che sarà seguito in tutto il mondo.

Al San Carlo Pretty Yenderitorna dopo il successo di Traviata di Verdi con la regia di Ozpetek.

Tra le stelle più brillanti della musica classica a livello internazionale,si è esibita in tutti i maggiori teatri del mondo, come Royal Opera House, Covent Garden di Londra, Opéra di Parigi, Metropolitan Opera di New York, Teatro alla Scala di Milano, Deutsche Oper di e Staatsoper di Berlino, Bayerische Staatsoper a Monaco, Opernhaus di Zurigo, Gran Teatre del Liceu di Barcellona, Wiener Staatsoper e molti altri.

 

“Il viaggio del soprano”

Sacro e profano, salotto e teatro, affetti e bozzetti. Dalla fine del Settecento ai primi del Novecento, il programma di questo concerto offre un ventaglio amplissimo delle possibilità e degli impieghi della voce sopranile, quasi un biglietto da visita volutamente eclettico in cui si può lasciare all’ascoltatore il gusto di scovare – o inventare – fili conduttori.

La voce di soprano si celebra di per sé, anche nel suo non essere necessariamente voce di donna, nella realtà come nella rappresentazione. Partendo, infatti, dal mottetto mozartiano ExsultateJubilate (1772) abbiamo il canto di un angelo che invita a rallegrarsi per la venuta del Redentore. E a un angelo Mozart aveva paragonato il primo interprete e destinatario, il castrato Venanzio Rauzzini, creatore a Milano negli stessi giorni della parte di Cecilio in Lucio Silla. Opera nella quale, peraltro, voci di donna ce n’erano eccome, a dispetto dell’idea dura a morire che vuole i castrati sistematici sostituti delle interpreti femminili, cui sarebbero stati interdetti i palcoscenici: una palese forzatura della realtà storica, dato che nello stesso Lucio Silla il Rauzzini era l’unico soprano maschile della compagnia, che allineava Anna Lucia de Amicis Buonsolazzi come Giunia, Daniella Mienci come Celia e Felicità Suardi en travesti come Cinna. “Muliertaceat in ecclesia”, ammonì San Paolo, ma quell’ecclesia da “assemblea” si circoscrisse facilmente alla sola chiesa e, quindi, alla musica sacra, quantomeno in funzioni pubbliche. Per il resto, vi furono limitazioni per le donne sulle scene teatrali a Roma e, in maniera anche discontinua, nei territori pontifici o in temperie di particolare moralismo, ma fin dalle origini il teatro d’opera ha visto molte donne emergere come vere e proprie dive, con prestigio ben maggiore rispetto alle colleghe attrici. In generale, però, i castrati provenivano da un vero e proprio addestramento e da una dura selezione che dall’infanzia nei cori di voci bianche fino all’attività professionale in età adulta formava musicisti altamente specializzati e dotati di una preparazione anche culturale superiore alla media delle colleghe donne. Inevitabile, dunque, che anche in contesti di “libero mercato” queste finissero per patire una dura concorrenza. E proprio il mottetto – pezzo sacro senza una predefinita collocazione liturgica dove il compositore può muoversi con relativa libertà – è il terreno in cui il genio mozartiano può mettere a frutto le qualità dell’interprete, non solo nel virtuosismo più elaborato, ma anche nel cantabile “Tu virginum corona”, che dimostra in quale considerazione fosse tenuta la maestria nel canto legato ed espressivo. Nondimeno, l’abilità retorica nell’approccio al testo è centrale nel breve recitativo “Fulget amica dies” non meno che nei due Allegro in fa maggiore che aprono e chiudono la partitura ed esigono, del pari, un’eloquenza che mantenga il giubilo nei ranghi di una nobiltà sublime.

Da questo modello altissimo di mezzi, realizzazione e soggetto, una sorta di fil rouge regale ci conduce a quelli che saranno i due pezzi operistici in programma, due pagine belcantiste che hanno significativi punti in comune. Dal punto di vista strutturale, sono due arie di sortita, due cavatine collocate anche in una posizione relativamente avanzata dell’opera, presentando finalmente una protagonista a lungo annunciata – e in un caso già apparsa in un quadro collettivo. Dal punto di vista drammatico, si tratta di due sovrane segnate nel loro passato da un crimine, ree o sospette d’uxoricidio e di altre colpe di potere e lussuria, redente infine ma destinate alla morte come estrema espiazione; l’aria le coglie entrambe in un locus amoenus (i giardini pensili di Babilonia, il parco del castello di Forteringa), assorte in un pensiero di speranza o nostalgia come via di fuga da un’oppressione presente.

Semiramide, l’ultima opera italiana di Rossini (libretto di Gaetano Rossi, Venezia, 1823), rappresenta, per di più, la summa di una tradizione e di una civiltà di belcanto che il compositore idealizza al punto da crearne un modello astratto, una forma classica talmente perfetta da raffigurare qualcosa che non è mai esistito in realtà. E, difatti, gli equilibri formali, i rigori geometrici di Semiramide, che per certi versi si richiamano alla poetica di Tancredi (Venezia 1813), vivono e raggiungono tali monumentali proporzioni proprio perché innervati di nuova linfa, forti dei mezzi sperimentati, sviluppati e affinati da Rossini a Napoli. Si guarda anche avanti, vagheggiando un passato idealizzato. E, avanti, si trova il confronto con la Maria Stuarda di Donizetti (libretto di Giuseppe Bardari, Milano 1835). In Rossini, dopo una scena introdotta dal coro, la prima sezione ha un andamento quasi declamato, con brevi sprazzi cantabili plasmati sul testo con un’aderenza madrigalistica (basti pensare a “gemé, tremò, languì”); la cabaletta si basa su un motto di breve respiro, spiccatamente ritmico, atto a lanciare uno sfogo virtuosistico che può essere brillante o nervoso, inebriato o ansioso, a seconda della sensibilità dell’interprete. Aperta dall’intimità di un breve recitativo in dialogo con la nutrice Anna Kennedy, la cavatina donizettiana si abbandona in un più ampio cantabile, che pure raccoglie le suggestioni del testo in abbellimenti che riecheggiano insieme lo zeffiro che trasporta la nube lieve e i sospiri rivolti alla terra natale. Rispetto a Rossini, la melodia della cabaletta si sviluppa maggiormente, concedendo meno spazio alla coloratura, ma, nonostante l’affetto opposto (non l’abbandono al dolce pensiero di un futuro incontro amoroso, ma l’angoscia per l’imminente confronto con la potente rivale), si riconosce ancora un moto incalzante determinato dall’impellenza dell’azione e della passione.

La scelta di intercalare il programma con un brano per pianoforte solo appartenente alla nutrita e nobile schiera delle trasposizioni operistiche, la parafrasi di Liszt su “O dumein holder Abendstern” da Tannhäuser (1848), rappresenta un ideale trait d’union fra il teatro e il salotto, oltre che un’esaltazione del puro lirismo – seppur concepita per la voce virile di un baritono e da un autore come Wagner, restìo al compiacimento melodico e all’estrapolazione del numero chiuso, ma nondimeno innamorato del belcanto belliniano.

L’eco della scena può arrivare in vari modi nella musica da camera, ma senza pregiudicare l’autonomia di un genere la cui poetica si concentra in uno spazio raccolto, sovente senza una precisa destinazione a un registro vocale. Lo ascoltiamo della finissima Beltà crudele di Rossini (versi di Nicola di Santo Mango, 1821), speranza amorosa incrinata dall’ombra di un dubbio, gemma risalente all’ultima fase dell’esperienza napoletana del compositore (1815-1822). Appartengono alle Soirées musicales (1835), quindi successive all’abbandono dell’attività teatrale, L’invito e La pastorella delle Alpi (versi di Carlo Pepoli per entrambe), vivaci bozzetti non privi d’erotica malizia. Coeve delle Soirées e legate alla città vesuviana sono le due ariette di Donizetti, tratte dalleNuits d’été a Pausillipe (1836, per i tipi del napoletano Bernardo Girard): La conocchia, testo anonimo in lingua partenopea, e Il barcaiolo (versi di Leopoldo Tarantini) rappresentano un gusto per il quadro caratteristico, per il colore locale e possibili allusioni piccanti, ma anche una propensione a una melodia più distesa, intima e carezzevole. Sono esempi, diversi e coerenti, di uno stile italiano della romanza da camera che si rivolge anche a un pubblico internazionale – come rivelano i titoli francesi delle due raccolte qui rappresentate – e si affianca, dunque, alla tradizione del Lied tedesco così come a quella della chanson e della mélodie francese, di cui Debussy rappresenta qui forse il momento di maggior splendore, a cavallo fra XIX e XX secolo.

Nessun legame con un contesto drammaturgico e musicale più ampio, eloquenza, tinte, ampiezza di gesto diversi da quelli che il teatro esige, non minore impegno. Al grande affresco – da cui magari estrapolare un dettaglio – si sostituisce la piccola tavola, la miniatura; alla potenza del chiaroscuro in vividi colori a tempera o a olio subentra la minuta pennellata ad acquarello. In questo contesto Debussy fa risuonare una poetica permeata di simbolismo, di rapporto panico con la natura, ma anche di raffinati richiami al passato, come in Mandoline, trascrizione sonora, nei versi di Mallarmé, della pittura di Watteau (1684-1721), con le sue galanterie campestri e le sue maschere, l’Arcadia e la Commedia dell’arte viste come sofisticato gioco aristocratico. Proprio l’eco vivace del mandolino spicca nel contrasto in una serie di arie che non segue un ordine cronologico quanto piuttosto poetico. La dolcezza del tramonto in Beausoir(versi di Paul Bourget, pubblicata nel 1891) rivela un presagio di morte nell’immagine del fiume che procede verso il mare come l’uomo verso la tomba.  Fleur de blés (versi di André Girod, composta nel 1881 e pubblicata dieci anni più tardi) riprende il riferimento al campo di grano già presente nel brano precedente per farne specchio dell’amata, che s’identifica con le spighe, i papaveri, i fiordalisi. Di Clair de lune (versi di Paul Verlaine) Debussy realizza due versioni per voce e pianoforte (la prima del 1881, pubblicata nel 1926, la seconda, di una decina d’anni successiva, pubblicata nel 1903), oltre a trarne ispirazione per la Suite bergamasque (1890): la notte è calata e si popola di maschere enigmatiche. Queste stesse sembrano animarsi in Mandoline, unico Allegretto fra andanti, moderati e andantini. Infine, nella notte più profonda, emergono immagini di fiori, serafini e fate nella luce malinconica di una luna personificata, Apparition (versi di Stéphane Mallarmé, scritta nel 1884 e pubblicata nel 1926) è un’immagine onirica in cui i sensi si mescolano fra fiaba e struggimento. In ogni brano, la linea di canto appare essenziale, apparentemente semplice, uno stile di canto improntato sul dettaglio, costruito per sottrazione. Lo stesso che compositore porterà poi nella sua unica opera teatrale, Pelléas et Mélisande (1902).

Dalla nobile quanto vivida pregnanza espressiva dello stile sacro di Mozart al regale belcanto operistico, la voce di soprano si è dunque declinata anche nelle forme della musica da camera, che ora hanno condiviso modi teatrali, ora si sono distillata in un mondo poetico autonomo, ma pronto per tornare, in un’ennesima metamorfosi, alla ribalta teatrale.

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