Ex cattedra: memorie di due insegnanti ai tempi del Coronavirus

Tra le preoccupazioni più grandi rispetto al nostro destino che il Covid19 sta destando, c’è senz’altro la scuola. Tra notizie non confermate, ipotesi vere e reali, si dispera di arrivare a una fine e il futuro tra i banchi sembra sempre più incerto. Se per gli studenti più grandi, quelli che dalla scuola sono in uscita, il timore più grande riguarda l’esame di maturità, per quelli più giovani, che magari si sono appena affacciati alla scuola, l’incognita si fa più grande. Presto le attività – si spera – riapriranno ma i genitori si chiederanno come potrà funzionare la ripresa con le scuole ancora chiuse, specie chi ha figli in età prescolare che neppure possono avvalersi dell’insegnamento a distanza.

Il ruolo (centrale) degli insegnanti

E in tutto questo, chi pensa agli insegnanti? Una categoria per certi versi tanto vituperata, per via del falso mito delle poche ore di lavoro o dei famosi tre mesi di vacanze estive, che però in questo momento così difficile per il paese sta vivendo una nuova era nella quale si vede riconosciuta l’importanza. Eppure, anche per loro i problemi sono molteplici, soprattutto per i tanti precari che a causa del Coronavirus vedono la possibilità di fare il concorso a cattedra come qualcosa di sempre più complicato, dove tempi e modalità costituiranno forse ancora per molto un punto interrogativo.

Per cercare di dare voce anche a loro, a come stanno vivendo questo momento e a come vedono il futuro della scuola, abbiamo messo a confronto due giovani docenti, provenienti dal Nord e dal Sud, entrambi brillanti, competenti, ricchi di speranze e soprattutto di voglia di trasmettere il proprio sapere tramite l’insegnamento. Due interventi che fanno riflettere, a tratti sorridere e capire che la classe docente del futuro avrà davvero tanto da insegnare ai nostri figli.

Le testimonanianze

La didattica a distanza

di Tiziana Serena

Tiziana Serena, nata a Brescia e laureata in Filologia Moderna all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Oltre a essere una docente di lettere, è appassionata di scrittura, è una blogger e si interessa di comunicazione e social media managing.

 

Quel 22 febbraio sembrava un sabato qualunque, dopotutto: gli studenti erano in fermento per il ponte di Carnevale imminente e pure noi docenti non vedevamo l’ora di staccare dopo il tour de force degli scrutini. Serpeggiava già l’ombra del Corona virus, però: durante l’intervallo, infatti, fui sommersa da una pioggia di domande sempre più insistenti.

“Profe, come funziona il Corona virus?”, “Profe, moriremo tutti?”, “Mia mamma mi ha detto che non posso andare alla sfilata di Carnevale, non è che può convincerla a farmi andare?”. “No, ragazzi miei. Non sono Nostradamus ma sono sicura che non morirete.” “No, non so bene come funzioni ‘sto virus e no, non posso convincere le vostre mamme.” “Tranquilli, su. Godetevi questo ponte, ci rivediamo mercoledì.” “No, niente compiti, piuttosto ripassate qualcosa perché mi è venuto un coccolone quando nell’ultima verifica qualcuno mi ha scritto che il regno di Giustiniano è durato fino al 1492.”

Non potevamo immaginare che quello sarebbe stato il nostro ultimo giorno di scuola. Quando arrivò la notizia del primo lockdown, quello che sarebbe dovuto terminare il 3 aprile, intuimmo subito che la situazione si sarebbe protratta a lungo. Troppo a lungo. Che fare con la didattica? Organizzare le lezioni a distanza senza averne mai fatte prima e confrontarsi a riguardo con i colleghi via Whatsapp o attraverso giri di telefonate chilometriche che neanche ai tempi dell’adolescenza è come cercare di organizzare una vacanza con una comitiva di amici senza potersi incontrare: tutti che dicono la loro, mai nessuno che è d’accordo, giornate concluse con un nulla di fatto ma con un fegato grosso così.

Alla fine giungemmo a una prima conclusione: seguire il canonico orario di 30 ore settimanali, solo attraverso le videolezioni. Mi opposi fermamente a questa iniziativa, ben conscia che né noi né i ragazzini avremmo retto a un tale carico di lavoro: un conto è affrontare la vita scolastica con la libertà di poter uscire, cambiare aula o chiacchierare con i compagni, ben altro affare è fissare uno schermo per un minimo di 6 ore al giorno, senza contare, naturalmente, i compiti. Le prime lezioni furono oltremodo confusionarie: Meet era un’assoluta novità per tutti, sembrava non reggere il carico di utenti collegati e, ovviamente, i soliti ne approfittavano per “mutare” (silenziare) i microfoni altrui, ivi compreso quello del docente. “Profe, quella è camera sua.?”, “Profe, ho visto su Instagram che ha un gatto, ce lo fa vedere?”, “Profe, quanti libri!”, “Profe, da qui i suoi capelli sembrano di un colore diverso!”. La buttavamo tutti sul ridere perché, in fondo, la situazione di per sé era ironica: avreste mai pensato di poter fare comodamente lezione da casa vostra e di poter sbirciare nella casa dei vostri professori?

Arrivammo alla fine di quella settimana esausti: a furia di lottare con i disguidi tecnici, ci ritrovammo tutti quanti con dei sorrisi da squalo, tesi come una corda di violino e pronti a sbranare chiunque avesse osato muovere una critica nei confronti del nostro lavoro. Perché se già normalmente ci sentivamo dire che fare l’insegnante non è poi un lavoro così difficile (“Basta leggere dal libro!”), in quei giorni iniziarono a fioccare pure le accuse di lassismo: di cosa si lamenteranno mai? Questi docenti! Vengono pagati per ciarlare un paio d’ore al giorno davanti a una videocamera! L’ira funesta, insomma, salì in generale a tutti.

Dimezzammo le ore di videolezione e ciò comportò una maggiore partecipazione degli studenti e un tempo maggiore per noi per capire le difficoltà che andavano via via palesandosi e che abbiamo risolto solo in parte. Il Ministero ci aveva suggerito solo di attivare la didattica a distanza (o DAD, ora obbligatoria) ma senza darci suggerimenti in merito. Ciò che era (ed è) lampante è che queste misure non sono altro che un palliativo, per giunta discriminatorio. Seppur con le pupille a forma di schermo, sovente terminiamo a mezzanotte di lavorare al pc pur di ricercare e creare materiale fruibile da tutti gli studenti. Se prima bastava un pomeriggio per preparare bene una lezione da esporre in classe, adattandola di volta in volta agli studenti che avevamo di fronte, adesso dobbiamo preventivamente creare un materiale adatto a tutti i livelli di difficoltà, in modo che i ragazzi possano studiarlo senza troppi intoppi e chiedere poi delucidazioni alla lezione successiva o via mail.

La didattica a distanza è un bene prezioso perché ci permette di tenerci in contatto costante con gli alunni: in una zona così gravemente colpita come quella di Brescia, tanti dei nostri studenti hanno subito lutti, hanno parenti ricoverati o hanno genitori che lavorano negli ospedali della zona e quindi, spesso, le videolezioni sono anche un modo per loro di sfogarsi, di parlare delle loro preoccupazioni, di esprimere il loro risentimento per una situazione opprimente e, perché no, di gioire tutti insieme perché il nonno è stato dimesso.

È l’unico strumento che abbiamo per poter proseguire le attività didattiche: c’è chi utilizza le videolezioni di Meet e chi crea PowerPoint, documenti di testo e video, e poi interagisce con gli alunni attraverso le piattaforme Classroom ed Edmodo. Tutti lavoriamo ben oltre l’orario abituale per fornire un servizio il più possibile completo. Le potenzialità che le nuove tecnologie ci offrono sono innumerevoli e molti siti hanno messo a disposizione enormi quantità di materiale per aiutare docenti e studenti. Questi servizi, però, non sono fruibili da tutti. Il mio istituto si è subito prodigato per dotare i ragazzini sprovvisti di portatili e tablet, dando la precedenza a chi proprio non aveva alcuno strumento se non un cellulare. Tuttavia, le famiglie numerose spesso si devono “contendere” gli strumenti di casa e a qualcuno tocca, purtroppo, seguire la lezione o fare i compiti su uno smartphone. I meno fortunati, inoltre, non dispongono di una connessione Wi-Fi e si arrangiano con i giga disponibili: il primo mese le maggiori compagnie telefoniche hanno messo a disposizione il traffico illimitato, ora tocca fare abbonamenti ad hoc e non tutti hanno liquidità per farlo. Lo stesso discorso vale per i docenti, soprattutto per i precari, che non hanno diritto al bonus annuale e le cui mensilità, spesso, non vengono pagate con regolarità.

La DAD è enormemente più difficoltosa per coloro che vivono in situazioni di degrado familiare e per coloro che hanno deficit cognitivi. Al momento i miei colleghi di sostegno si stanno prodigando in mille modi per contattare questi studenti e per cercare di lavorare con loro a distanza, ma è un fatto che questo tipo di insegnamento ha molta più efficacia faccia a faccia. Ulteriore fattore discriminante sarà la continuità didattica. Io sono una docente precaria, quasi sicuramente l’anno prossimo non proseguirò in questa scuola ma andrò a lavorare in un’altra: in situazioni normali, si dedica la prima settimana per conoscere le classi e i colleghi e poi si inizia il nuovo programma.

Cosa accadrà se a settembre proseguiremo con la DAD? Come potremo noi insegnanti approcciarci alla nuova realtà senza rallentare ulteriormente il percorso della classe? Come potranno i ragazzini imparare a conoscerci? È vero che, come si dice in bresciano, en mancansa de caai i trota pò gl’àsen (“in mancanza di cavalli trottano anche gli asini”) e quindi, come già stiamo facendo, ci accontenteremo dei mezzi disponibili e faremo buon viso a cattivo gioco, ma fino a che punto sarà produttivo per tutti? Tanti dubbi mi assalgono e mi lasciano perplessa, ma per ora ho un’unica certezza: la stanchezza psicologica di tutti. Docenti, studenti, genitori.

 

La scuola è finita?

di Alfredo Palomba

Alfredo Palomba, docente di Lettere originario di Pompei ma di stanza a Cesena. Saggista e scrittore, nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo” Teorie della comprensione profonda delle cose” per Wojtek edizioni, segnalato al Premio Calvino e al Premio Strega.

 

Sulla prima pagina de “la Repubblica” del 14 aprile campeggiava il titolo «La scuola è finita»: un messaggio avvilente, che acuisce la mia impressione di scrivere da una prospettiva già postuma, comunque irreparabilmente mutata rispetto a quella che avrei avuto – che avevo – solo tre mesi fa. Della scuola, io sono un irregolare. Insegno Lettere lontano da casa, nella secondaria di primo grado: un soldato semplice dell’esercito dei precari, in tre anni ho cambiato tre istituti e altrettante mansioni. Proprio ieri leggevo delle pagine inedite dell’amico scrittore Davide Morganti, le prime di uno spassosissimo romanzo satirico in lavorazione, ambientato a scuola, in cui il narratore dichiara che la parola “precario” possa essere declinata «in tanti modi: angosciante, preoccupante, allarmante, serio, delicato, critico, minaccioso, sconvolgente. Non c’è scampo, sono vite già segnate dalla morte». Giusto per delineare il quadro del contesto lavorativo che mi dà il pane dalla fine del 2017.

Il primo anno ho insegnato sostegno, un’esperienza incredibile, che ho spesso considerato di voler ripetere; il secondo ho avuto un incarico di sola Geografia, una cosa divertente che non farò mai più, a patto di essere abbastanza fortunato; il terzo anno, questo, mi è stata affidata una cattedra completa: due classi, una prima e una terza, italianostoriageografia. La cosiddetta normalità, che a vent’anni si rifugge, disprezzandola, mentre a trenta si comincia, forse, a desiderare. Ma la normalità avrebbe dovuto ancora attendere: a novembre è uscito il mio primo romanzo, sicché la fine dell’estate e i primi due mesi di scuola – mentre imparavo a gestire ritmi per l’ennesima volta nuovi, una programmazione inedita, i ragazzi di terza reduci dall’aver subito il pensionamento della professoressa con esperienza quarantennale e modi materni che li aveva accompagnati fin lì, ed erano costretti ad affrontare una piccola crisi di abbandono insieme a un pelato trentaquattrenne dal sarcasmo marcato e i modi spicci – sono stati caratterizzati da letture e revisioni selvagge del manoscritto; i successivi tre mesi li ha forgiati una promozione serrata, che mi ha visto capicollare, nei week-end, su e giù per l’Italia a presentare il libro, mentre cercavo di dormire il necessario, mantenere un minimo di lucidità e, in generale, non andare in pezzi.

Poi, all’improvviso, si è spento tutto e sono tornato a casa, a Scafati, provincia di Salerno. L’emergenza è incominciata presto, in Emilia Romagna, una delle regioni più flagellate. Ho lasciato alle spalle un quadrimestre appena concluso, dei primini che si erano giusto orientati e dei terzini in fase di accettazione del lutto, che forse cominciavano ad abituarsi al cambio di guardia.

Non me lo ricordo già più, il mio ultimo giorno di scuola, perché l’ho vissuto non sapendo che fosse l’ultimo. E quando sono sceso in Campania ho portato dietro quattro cose, perché avevo in previsione di ritornare entro una settimana, dieci giorni al massimo. Tuttora, ho a Cesena:

  • i libri che avrei voluto leggere nel breve periodo;
  • la maggior parte dei vestiti e delle scarpe;
  • i testi scolastici;
  • il raccoglitore nero coi voti, famigerato anche nelle classi non mie;
  • la roba per la palestra (e un abbonamento annuale che avrò sfruttato sì e no al 20 per cento);
  • avena in polvere, proteine, burro d’arachidi, creme spalmabili proteiche;
  • un orrendo volume coi test per il futuribile Concorso Scuola che non ho nemmeno sfogliato;
  • la mia chitarra acustica Lakewood

e, cosa più grave di tutte:

  • la PlayStation.

Controllo il registro: 22 febbraio, un sabato. Di sabato i ragazzi sono stanchi e così in prima ho fissato l’ora di epica, in terza ho alternato letteratura e lettura in classe di un romanzo. Abbiamo scelto Un ragazzo d’oro di Eli Gottlieb, il racconto di un uomo autistico narrato dal punto di vista obliquo dello stesso protagonista. C’è stato giusto il tempo di finirlo, ne sono contento, a molti dei ragazzi è piaciuto.

Gli articoli letti usano espressioni roboanti che mi lasciano perplesso, per l’abuso di termini guerreschi misti a gergo aziendalistico che denunciano, quantomeno, un quadro poco chiaro del prossimo futuro e una folle paura dell’ignoto. Cronoprogramma per i prossimi quattro mesi e mezzo. Task Force. Ma forse è quello che tanta gente ha bisogno di sentire, o che “l’Europa” o “i mercati” hanno bisogno di sentire. Dinamica mista, lezioni mattutine e pomeridiane. Si prevede una continuazione della didattica online e verifiche da tenere in classe, a piccoli gruppi, per mantenere le distanze di sicurezza. Rilancio in cinque mosse. Lezioni ridotte a quaranta minuti, monte ore per gli insegnanti da aumentare a 24 settimanali, aumento di cento euro in busta paga. Forse congelamento delle graduatorie e rinnovo automatico dei contratti, il che, per quanto mi riguarda, sarebbe pure cosa buona. I media rilanciano comunicati ministeriali molto sicuri dei propri mezzi linguistici, un chiocciante susseguirsi di travisamenti, smentite, polemiche, rivendicazioni del proprio operato, esortazioni al corpo docente, complimenti a insegnanti e dirigenze, promesse solenni. Seguo con un certo accanimento le dichiarazioni della Ministra dell’Istruzione Azzolina: mi sembra di percepire il terrore nei suoi occhi, un terrore cieco, infantile, a dispetto dei discorsi declamati in tono convinto e, al solito, confusionari, nebulosi.

«Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio», scrive Antonio Moresco in Gli esordi, e immagino valga anche per il sottoscritto. Tuttavia, nella pur rassicurante quiete dell’estrema periferia scafatese, l’incertezza assodata a livello generale si riflette nel mio quadro particolare: a cominciare dalla connessione wi-fi di cui dispongo, che mi limita molto nella strombazzata “didattica a distanza”. La quale, per la cronaca, ritengo un surrogato insoddisfacente e disincentivante, che si tenta di attuare con tutto l’entusiasmo di cui disponiamo ma resta una forma di didattica monca, priva di basi emotive, tendente al formale, all’asettico, di sicuro non utile sul lungo periodo e che, per di più, non è democratica da un lato e impossibilita una valutazione serena e oggettiva dall’altro. Si è fatto un gran parlare, anche a sproposito, del sei politico e della promozione per tutti. Da parte mia, sebbene, già a prescindere e soprattutto considerata la situazione emergenziale, ‘fermare’ un alunno dovrebbe essere ipotesi da applicare solo in caso estremo, necessario e col favore dell’intero consiglio di classe, escludere tout court l’opzione dall’orizzonte del possibile mi pare, a dir poco, diseducativo. E non perché, come pure polemicamente è stato scritto, gli allievi studierebbero solo se minacciati dallo spauracchio delle valutazioni e della bocciatura, ma perché li si priva della possibilità, formativa, di riprovare, di fare ammenda, di impegnarsi di più per riuscire laddove il primo approccio non è stato quello giusto; li si priva, in sostanza, del diritto di fallire, verbo temutissimo dai parvenu di un certo perbenismo sociolinguistico e che, invece, contestualizzato, può essere motivante, responsabilizzante. Non dare agli studenti la possibilità di fallire significa, in automatico, dir loro che a ogni modo “va bene”, che “tanto poi”, che “in fin dei conti”, e a dirglielo sono proprio le persone che dovrebbero, al contrario, spronarli a dare il meglio e, semmai, prendersi la responsabilità di far loro ripetere dei passaggi. Significa abituarli all’approssimazione, all’incapacità di cambiare approccio e strategie affinché trovino il proprio modo di reagire alle prove da superare. Significa sclerotizzarli in un trend sempre e comunque positivo, irrealistico, che non contempla il segno meno e può limitare, quando non ridurre moltissimo, la volontà di migliorarsi.

Non so quanto c’entri, ma io non faccio parte della schiera di coloro che scambiano l’insegnamento per una “missione”. L’insegnamento è un lavoro, una mansione che richiede personale intelligente, responsabile, empatico, qualificato. Un lavoro delicatissimo, spesso bellissimo. Un lavoro che andrebbe svolto con mezzi appropriati e, a mio avviso, il più possibile in presenza, almeno per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria. Io, dicevo, non sono tra quelli che si annullano in funzione della propria mansione lavorativa, che non staccano mai, che pensano alla scuola ventiquattr’ore al giorno e, per un problema o per l’altro, “non dormono la notte”. Le mie notti, a prescindere dalle eventuali difficoltà che un anno scolastico, sempre complesso, può mettermi di fronte, sono puntualmente caratterizzate da una media di sei, sette ore di sonno saporitissimo, e il mio tempo libero è sacro, intoccabile. Però il lavoro mi manca, mi mancano gli alunni e non mi basta vederli attraverso uno schermo. Lo trovo limitante, non mi dà soddisfazione.

Confido, allora, da bravo trentaquattrenne, in un ritorno a una normalità ‘normale’. A un prossimo anno scolastico vissuto (ma, ahinoi, pare improbabile) in classe, con la possibilità di guardarci in faccia e lavorare al meglio delle nostre possibilità e che, comunque sia, non sia fatta salva l’eventualità di inciampare. Abbiamo bisogno dell’opportunità di aiutare davvero, e non per scherzo, alla leggera: ché anche il recupero è scuola e, dunque, cosa dignitosa, seria.

 

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